
Il settore della cooperazione internazionale sta vivendo una contraddizione sempre più evidente. Da un lato cresce la domanda di professionisti qualificati per rispondere a crisi globali sempre più complesse; dall’altro, i giovani che vorrebbero intraprendere una carriera nella cooperazione internazionale incontrano ostacoli spesso insormontabili per accedervi. In teoria, le opportunità non mancano; nella pratica, mancano strumenti adeguati a valorizzare le nuove generazioni e ad accompagnarle nei primi passi professionali.
Il livello di esperienza richiesto per un primo impiego è tra le principali difficoltà e, negli annunci pubblicati su Lavorarenelmondo.it, lo vediamo chiaramente: in media, le organizzazioni e le istituzioni del settore preferiscono candidati con almeno due o tre anni di lavoro sul campo. Per accedere a un primo impiego servirebbe già un bagaglio di esperienze che, tuttavia, è difficile acquisire senza opportunità di ingresso concrete. E nei pochi casi di annunci in cui si cercano profili con requisiti minimi, la competizione è altissima.
L’accordo collettivo nazionale per la regolamentazione delle Collaborazioni coordinate e continuative delle Organizzazioni per la cooperazione allo sviluppo, l'aiuto umanitario e la solidarietà internazionale, nato dal confronto tra le reti AOI e LINK 2007 con le sigle sindacali FeLSA CISL, NIdiL CGIL e UILTemp, avrebbe potuto segnare un punto di svolta in tal senso. Nel nuovo accordo, però, purtroppo non è stata trovata l’intesa per la definizione di un profilo professionale che potesse inquadrare correttamente i giovani aspiranti cooperanti. Il timore dei sindacati era che l’identificazione di un profilo di livello junior, con requisiti entry-level in termini di competenze, potesse giustificare retribuzioni inferiori rispetto a tutti gli altri profili professionali identificati nell’accordo.
Il risultato è che, oggi, i giovani che desiderano iniziare una carriera nella cooperazione si trovano senza un inquadramento contrattuale idoneo, che possa permettere alle organizzazioni di farli partire per un’opportunità all’estero. Secondo il report The Future of Humanitarian Work, quasi due terzi dei giovani cooperanti ha svolto più di un’esperienza gratuita prima di trovare un impiego stabile. Per poter maturare esperienza, ai giovani non resta altro che affidarsi a percorsi frammentari, come stage, bandi di tirocinio o programmi di volontariato all’estero, come il Servizio Civile Universale. Proprio queste opportunità, insieme a quelle promosse dalle Nazioni Unite, come i bandi JPO, JPD o i Fellowships Programme, sono diventate oggi tra le poche occasioni per entrare in questo mondo.
Anche i Master universitari o i corsi di formazione privati non riescono più a costituire una via preferenziale di accesso. Da sempre considerati un canale privilegiato per entrare nel settore, stanno vivendo un periodo di crisi. Tra il 2018 e il 2023, le iscrizioni ai master in cooperazione internazionale sono calate del 20% a livello europeo, con una tendenza simile anche in Italia.
Il ricambio generazionale, sempre più difficile, sfocia di conseguenza nell’impossibilità di trovare profili qualificati per ricoprire determinate posizioni. Tra i posti sempre più “vacanti”, si segnalano i profili dedicati alla logistica e alla gestione della supply chain, alla sicurezza e alla gestione del rischio, e alla data analysis. Per non parlare dei ruoli amministrativi, per cui gli annunci, negli ultimi anni, sono aumentati moltissimo, senza però trovare un adeguato numero di candidati.
Solo investendo seriamente nei giovani sarà possibile garantire un futuro alla cooperazione internazionale: più inclusiva, dinamica e all’altezza delle sfide globali.